PRODUZIONE BIRRE ARTIGIANALI

Produzione birre artigianali

Domanda di rito: come si producano le birre artigianali? Con 4 ingredienti base (acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito) ed alcuni segreti!

La “rivoluzione della birra artigianale”, che negli ultimi anni ha conquistato sempre più il favore dei consumatori italiani, è un fenomeno che ha origine in California, negli anni ’60. Fritz Maytag, il pioniere di questo movimento, nel 1965, acquisì il birrificio Anchor Brewing Company di San Francisco, che era sull’orlo del fallimento, per rilanciarlo mediante la reintroduzione di traditional brewing methods. Questi stili birrari erano stati utilizzati fino al XIX secolo per la produzione di birre ad alta fermentazione, ottenute a temperature comprese tra 15° C e 25° C (Tremblay e Tremblay, 2005), ma erano stati poi soppiantati dai processi di tipo industriale, realizzati a basse temperature.

Con la rivoluzione industriale, infatti, fu resa possibile la produzione di birra sul larga scala, cioè in grandi impianti. Le nuove tecnologie avevano consentito di evidenziare la presenza dei due ceppi di lieviti responsabili della fermentazione: il Saccharomyces cerevisiae, utilizzato (inconsapevolmente) fino a quel momento, e il Saccharomyces carlsbergensis. Quest’ultimo, isolato a fine Ottocento nei laboratori del birrificio danese Carlsberg, dallo scienziato Emil Christian Hansen, rese possibile l’avvio della produzione di birre a bassa fermentazione, ottenute in cisterne costantemente refrigerate, con una lavorazione particolarmente difficoltosa e onerosa per piccoli quantitativi (Swinnen e Vandemoortele, 2011; Cleri, 2013), ma ideale per la produzione su larga scala. Così, le birre ottenute con questa tecnica conquistarono quote sempre maggiori di mercato, relegando quelle ad alta fermentazione a un ruolo marginale.

Successivamente, questa tendenza è stata rafforzata da una serie di fattori contingenti, come, ad esempio, i razionamenti di grano e il proibizionismo, nella prima metà del XX secolo, e, più di recente, la ricerca da parte dei consumatori di bevande leggere, con un ridotto contenuto calorico. Il risultato è che, tuttora, le birre prodotte a livello mondiale sono in prevalenza poco alcoliche, vengono ottenute con la tecnica della bassa fermentazione e con l’aggiunta di cereali come riso o mais, che conferiscono un colore molto chiaro (Stack, 2003; Tremblay e Tremblay, 2005; Poelmans e Swinnen, 2011).

Quindi, l’idea di reintrodurre traditional brewing methods rappresentò una vera e propria rivoluzione, rafforzata dal fatto che tali birre (scure, all-malt, senza additivi o conservanti e con grado alcolico elevato) si ispiravano all’Editto della Purezza tedesco del 1516 e ricordavano “a European-style beer that is more full-bodied, complex, and flavorful than regular beer” (Tremblay e Tremblay, 2005: 114-115). Tutto ciò portò alla (ri)scoperta di antichi stili birrari, più gustosi e saporiti che hanno affascinato e incuriosito un numero crescente di consumatori, e a un aumento ragguardevole del numero di piccoli produttori artigianali. Un aspetto alquanto interessante da sottolineare è che questo fenomeno, dopo essersi affermato negli Stati Uniti, si sta propagando anche in contesti economici e socio-culturali molto diversi, come in Sud America, Europa e Oceania (Argent, 2015; Danson et al., 2015; Fastigi et al., 2015b; Garavaglia, 2010; 2015; Toro-Gonzales, 2015).

MICROBIRRIFICI ARTIGIANALI

In particolare, in Italia, nazione storicamente legata alla produzione e al consumo di vino, si è recentemente registrata una progressiva e considerevole diffusione di microbirrifici e, parallelamente, una crescente popolarità delle birre da essi prodotte e commercializzate. Si può quindi parlare, a pieno titolo, di un vero e proprio “movimento” costituito da appassionati, esperti e imprese fortemente eterogenee dal punto di vista delle caratteristiche produttive e strategico-organizzative. In questo contesto, una peculiarità tutta italiana è rappresentata dai birrifici agricoli, introdotti nella legislazione italiana con il D.M. n. 212 del 2010. Secondo tale Decreto, per essere definita “agricola” la produzione della birra deve risultare attività connessa all’esercizio dell’agricoltura, ovvero gli ingredienti principali devono essere ricavati prevalentemente (almeno per il 51%) da prodotti ottenuti in azienda. Ciò significa che l’imprenditore agricolo deve coltivare direttamente l’orzo e attivare il processo di maltazione, oppure delegarlo a una struttura di cui è socio. I vantaggi di questo provvedimento, che ha l’obiettivo di sostenere la diversificazione del reddito aziendale agricolo, non sono legati solo alla possibilità di indicare in etichetta lo status di birrificio agricolo (preclusa alle altre tipologie di microbirrifici), ma anche all’opportunità di usufruire di un regime fiscale agevolato e di avere potenzialmente accesso ai finanziamenti destinati dall’Unione Europea per lo sviluppo rurale.

Il presente lavoro ha l’obiettivo di analizzare i tratti fondamentali che hanno caratterizzato l’evoluzione del settore e del mercato della birra focalizzando l’attenzione sulle peculiarità del caso italiano e, in particolare, sugli agribirrifici, così da fornire spunti di riflessione sulle loro prospettive e potenzialità di sviluppo.

Nel contesto di continua espansione del mercato brassicolo, il comparto della birra artigianale si sta costantemente rafforzando. Ciò è ancora più interessante se si considera che negli Stati Uniti – nazione in cui la craft beer revolution sta trovando la sua massima espressione – la birra complessivamente prodotta nel 2014 (225.947 mila ettolitri) è inferiore a quella del 1990 (238.997 mila ettolitri). In questo paese, il numero totale dei birrifici è cresciuto in modo continuo nel corso degli anni. Nel 2014 si contavano 3.464 unità di cui ben 3.418 microbirrifici, dato che appare particolarmente significativo se si fa riferimento al fatto che, nei primi anni ’80, il numero di imprese attive nel settore era arrivato al minimo storico di 43 unità. Inoltre, le birre craft hanno raggiunto una produzione (in ettolitri) pari all’11% del totale e una quota di mercato di poco inferiore al 20%